Un giorno, un giovane discepolo, tormentato dal dubbio, si recò dal Maestro, s’inchinò davanti a lui e gli pose questa domanda: “Venerabile Maestro, è fondamentale per la pratica spirituale rispettare rigidamente l’aspetto formale nella recitazione dei mantra e dei testi sacri?” Il Maestro non rispose direttamente alla domanda, ma raccontò questo aneddoto: «Due monaci partecipavano ad una cerimonia religiosa, alla quale presenziavano molte persone. Uno di essi era giovane e l’altro molto vecchio: entrambi furono incaricati di recitare, nella grande sala di meditazione, quella parte delle Scritture che inizia con le parole “Allora, o monaci, il Buddha incominciò a parlare…” Il primo di essi era un noto oratore addestrato nella tecnica della parola ed abile nella dizione. Egli recitò impeccabilmente il testo prescelto, in un modo tanto efficace che quando terminò la lettura tutti avrebbero voluto poter ascoltare ancora la sua voce meravigliosa: espressero la loro ammirazione con un sommesso ma diffuso brusio d’approvazione. Poi prese la parola l’altro incaricato – che era molto più anziano. Non aveva mai parlato al pubblico in un tempio ed era tutto compreso per questo avvenimento che lo toccava profondamente. Recitò le stesse frasi pronunciate dal collega, ma ogni tanto incespicava nella lettura. E quando terminò, nessun rumore si sentì nella grande sala: ma la gente era commossa e stava pregando, in profondo raccoglimento. Ecco (concluse il Maestro), la differenza tra le due recitazioni: il monaco giovane ha dimostrato di conoscere le Scritture, mentre quello vecchio ha fatto capire di conoscere il Buddha.» Detto questo, il Maestro tacque. E il discepolo – che l’aveva ascoltato attentamente – esclamò: “Ben detto, o Venerabile! ben detto!” e se ne andò, soddisfatto della risposta.
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